Sisifo si diverte

Racconto della sesta edizione del concorso Nazionale “Quirino Maggiore” di Narrativa, Poesia e Fotografia in Nefrologia, Dialisi e Trapianto.

Opera di Massimo Sodero, 1° classificato, sezione narrativa, categoria operatore.

Pensando all’emodialisi e in particolare alla sua intermittenza terapeutica mi è sempre venuto in mente il mito di Sisifo. Si, proprio colui che fu punito e condannato da Zeus a spingere con grande fatica un enorme masso su per una montagna solo per vederlo poi, una volta raggiunta la cima, rotolare giù, costringendolo a ricominciare da capo.
Ogni volta così. Per l’eternità.
Come paragone può risultare abbastanza frustrante, così come frustrante può essere constatare che il peso faticosamente tolto con la dialisi sia di nuovo sul display della bilancia nella seduta successiva. Poi però penso che non sia esattamente la stessa cosa, quel masso non rotola subito giù, un po’ sulla montagna ci rimane, ci rimane per tutto il giorno dopo la dialisi e nel fine settimana ci rimane anche due giorni. Vale la pena quindi faticare a spingere il masso della dialisi, in cambio si avrà un bene prezioso: il tempo. Pazienza poi se bisognerà ricominciare ogni volta.
Ero convinto che questa piccola riflessione fosse possibile applicarla a tutti i pazienti che si sottopongono all’emodialisi, tutti disposti a questo sacrificio per poter continuare a vivere, finché non ho incontrato lei.
La prima volta che la vidi mi suscitò subito simpatia, età avanzata ma comunque indefinibile, raggiungeva a mala pena il metro e cinquanta, paffuta fin quasi all’obesità, capelli canuti e arruffati, facile al sorriso nonostante denti radi e consunti. Ma quello che colpivano erano gli occhi, non sembravano invecchiati con il resto del corpo, erano dolci e vellutati come quelli di una bambina, così come la voce, sottile e cantilenante. Indossava -e sempre lo avrebbe fatto- una non più candida camicia
da notte d’altri tempi che sfiorava il pavimento e che insieme ad un’andatura dondolante e dinoccolata rendeva la sua figura buffa, quasi comica.
Cominciò a dializzare totalmente inconsapevole di quello che stava facendo, ignorando completamente cosa fosse la dialisi di cui non riusciva neanche a pronunciare correttamente il nome, alla faccia dell’educazione sanitaria e dell’ambulatorio di pre-dialisi. Inutile tentare di spiegarle come si sarebbe svolto il trattamento emodialitico, lei era lì, sulla poltrona, con la stessa consapevolezza di un agnello sacrificale. Mi fece tenerezza.
Man mano che passavano i giorni e le dialisi, acquistò confidenza con gli operatori e gli altri dializzati rivelando un carattere docile e mite. Quasi completamente analfabeta, viveva in un minuscolo paesino del profondo sud del Salento e viveva da sola, ai margini della società, con l’unica compagnia dei suoi amati gatti con cui condivideva i pasti che lei stessa cucinava. Proprio la cucina fu il primo argomento di conversazione con noi operatori, snocciolandoci improbabili ricette a dire il vero molto poco appetibili. Mi resi conto che proprio di questo aveva bisogno: parlare, parlare con qualcuno, come se non lo facesse da tanto tempo. Cominciò a raccontarci della sua vita, partendo dall’infanzia, ricordava perfettamente tantissime filastrocche imparate dalle suore che cantava con una melodiosa voce da bambina. Divenni il suo “biografo”, arrivando perfino ad appuntare, su sua richiesta, gli eventi più salienti della sua vita. Intorno alla sua poltrona c’era sempre qualcuno ad ascoltarla, a scherzare e a ridere con lei o a regalarle caramelle e cioccolatini di cui era ghiottissima.
Divenne chiaro che la dialisi per lei non rappresentava una costrizione, sembrava invece venirci volentieri, sembrava che con la dialisi avesse trovato un modo per soddisfare il suo bisogno di socialità, un modo per sconfiggere la solitudine e per esprimere sé stessa, come non aveva mai fatto prima.
Una volta mi fece cenno con la mano di avvicinarmi e sottovoce, in dialetto, candidamente mi disse: “a casa sono sempre sola e non parlo mai con nessuno, a me piace venire qui, non potrei venirci tutti i giorni?”. Naturalmente le spiegai che non era possibile e pensai che mai avevo sentito da un dializzato una simile richiesta, casomai mi avevano chiesto di poter venire meno frequentemente.
Spesso si sente dire che il Centro Dialisi diventa per il dializzato una seconda famiglia, per lei era diventato semplicemente famiglia, senza numerazioni accessorie. Nel corso del mio servizio ho conosciuto tanti dializzati che hanno frequentato il nostro Centro, tutti hanno dovuto fare i conti con questa strana terapia che è la dialisi, tutti hanno dovuto cercare e creare un equilibrio
per poter fare fronte a una nuova quotidianità, per poter elaborare il paradosso che solo con la dipendenza dal trattamento emodialitico si può essere protetti e curati. C’è chi ci è riuscito con la fede, c’è chi lo ha fatto con la forza di volontà e c’è chi
non ci è riuscito affatto, subendo ogni giorno tutto quello che comporta sottoporsi ciclicamente all’emodialisi, spingere sulla montagna con fatica il pesante masso di Sisifo. Per lei no, per lei non ce n’è stato bisogno, lei era felice di venire a dializzare,
per lei spingere quel masso non costava nessuna fatica, era quasi divertente.
Annunziata (sì, questo era il suo nome), oggi non c’è più, ma mi ha lasciato un insegnamento, proprio lei che era analfabeta…
mi ha insegnato che si può essere felici nonostante tutto, che si può essere felici delle piccole cose, delle cose semplici, se si riesce a viverle con la stessa semplicità.

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